Uomo politico e militare romano. Figlio di Publio Cornelio (V. SCIPIONE, PUBLIO CORNELIO),
che fu console nel 218 a.C., partecipò giovanissimo alla battaglia del
Ticino contro Annibale e, secondo la tradizione, in quell'occasione salvò
la vita al padre ferito. Tribuno militare a Canne, diresse la ritirata di alcune
migliaia di uomini verso Canosa. Il suo
cursus honorum contava solo la
carica di edile curule, ricoperta nel 212 a.C., quando il padre e lo zio furono
uccisi in Spagna nel 211 a.C.: non essendo state presentate candidature per la
magistratura proconsolare in quella regione,
S. propose la sua,
benché fosse privo del requisito di età minima e non avesse al suo
attivo alcuna magistratura
cum imperio, senza la quale non era mai stato
concesso il potere proconsolare. In deroga a tali norme, con l'appoggio del
Senato e il favore dell'assemblea popolare,
S. ottenne il comando e nel
210 a.C. era già sbarcato a Tarragona con la flotta. Riorganizzate le
truppe già sul posto, nella primavera del 209 a.C.
S.
riuscì a espugnare la piazzaforte di
Carthago Nova, difesa dal
cartaginese Magone. La decisione di rilasciare gli ostaggi iberici, lì
trattenuti dal generale punico, guadagnò ai Romani l'appoggio di molte
popolazioni locali, la cui ostilità fu invece assai dannosa per le
postazioni militari cartaginesi. A poco a poco
S. conquistò la
penisola iberica, sgombrandola dalle truppe di Cartagine: nel 208 a.C. vinse a
Becula, nel 206 a.C. a Ilipa e a Cadice. Benché Asdrubale fosse comunque
riuscito a inviare rinforzi in Italia ad Annibale, quella di
S. fu una
campagna militare di grande successo, che sottopose la Spagna alla dominazione
romana e guadagnò allo stesso
S. la magistratura consolare per
l'anno seguente, il 205 a.C. Forte di tale incarico, delle sue vittorie militari
e del favore popolare che ne seguiva,
S. dimostrò di muoversi con
una notevole indipendenza e autonomia, godendo di autorità politica e
militare che vanificavano la volontà di controllo da parte del Senato e
in genere dell'aristocrazia. Anche l'appoggio che gli alleati italici
conferivano al generale romano dimostrava la novità della sua azione: con
essa si delineava un'entità statale non più mero strumento
dell'egemonia del patriziato cittadino romano, ma struttura federale di cui i
socii erano parte attiva e non sottoposta, benché Roma ne fosse
comunque alla testa. Così, rifiutato il piano del Senato che voleva
inviarlo nel Bruzio contro Annibale lì accampato,
S.
organizzò una flotta di volontari italici, ottenne il comando consolare
della Sicilia, con l'intento di sbarcare in Africa e attaccare Cartagine entro
il suo territorio. Approfittando dello scontro interno tra Siface, re dei Numidi
occidentali, e Massinissa, re dei Numidi orientali, si creò una base
d'appoggio stringendo alleanza con quest'ultimo. Il console, sventata
l'opposizione senatoriale e riconfermato nell
'imperium per l'anno 204
a.C., sbarcò in forze sulle coste africane presso Utica, ma presto
soffrì la medesima situazione patita in Italia da Annibale: infatti ogni
iniziativa gli era resa impraticabile dal trovarsi in territorio straniero e
dall'inferiorità numerica. Tuttavia anche Cartagine viveva una
crisi economica e politica, per la lunga guerra, tanto forte da indurre una
prima trattativa con
S. attraverso la mediazione di Siface: in cambio
della tregua, ai Romani sarebbero rimaste tutte le terre conquistate (comprese
le province spagnole), purché a Cartagine fossero riconosciuti i confini
precedenti alla guerra.
S., che riteneva l'accordo svantaggioso,
approfittò tuttavia delle trattative per riorganizzare le proprie forze:
quando infine rifiutò ufficialmente l'accordo era ormai pronto alla
battaglia, che vinse nel 203 a.C. presso Utica, ai Campi Magni. Seguirono un
armistizio e accordi di pace, duri ma non insostenibili per Cartagine,
interrotti però dal rientro dall'Italia di Annibale: ciò riaccese
la guerra, seppur brevemente, perché
S. batté le ultime
forze puniche nel 202 a.C. a Zama, guadagnandosi sul campo l'appellativo di
Africano. L'anno seguente, a Roma, fu celebrato il suo trionfo e, nel 199
a.C., mentre ricopriva l'incarico di censore,
S. ottenne il titolo di
princeps senatus. La sua autorità pubblica, pur entro i
limiti della legalità e della Costituzione repubblicana, crebbe,
influenzando significativamente soprattutto la politica estera romana, ma fu
contrastata lungo i decenni seguenti dal Partito aristocratico, senza peraltro
raccogliere compiutamente l'appoggio della opposta parte democratica, dal
momento che gli interventi di
S. in favore del popolo furono assai
limitati e inferiori, ad esempio, alle azioni intraprese a suo tempo dal tribuno
Flaminio.
S., nuovamente eletto console nel 194 a.C., propose una
politica di protezione della Grecia nei confronti della Siria di Antioco III, in
luogo del progetto di evacuazione delle forze romane patrocinato invece da
Quinzio Flaminio, di cui peraltro condivideva la formazione e la cultura
ellenizzante: tuttavia il Senato non approvò la sua proposta di
intraprendere una guerra contro il sovrano siriaco. Il suo indirizzo prevalse
solo qualche anno più tardi e, quando lo scontro con Antioco si fece
inevitabile, egli vi partecipò come legato del fratello Lucio (V. SCIPIONE ASIATICO,
LUCIO CORNELIO), console nel 190 a.C., non potendo ottenere direttamente
l'
imperium per la legge contro la reiterazione dei comandi. Ciò
nonostante, egli fu considerato il vero e maggior artefice di quella campagna
militare, pur non partecipando in prima persona alla grande battaglia di
Magnesia al Sipilo, vinta da Lucio. Seguirono poi trattative di pace, condotte
dallo stesso
S. e miranti ad assicurare l'egemonia romana sulla regione
senza annessioni dirette e costose da parte della Repubblica: ne sortì la
Pace di Apamea (188 a.C.). Negli stessi anni, in Roma montava una composita
opposizione alla famiglia degli Scipioni, e in particolare all'Africano, guidata
da Catone il censore, che riuscì a intentare contro i due fratelli una
causa per chiedere loro conto di alcune indennità di guerra versate nelle
loro mani da Antioco. Questi fatti giudiziari, noti come
processi degli
Scipioni, non sono ben tramandati dalle fonti, sempre troppo parziali: pare
tuttavia che l'Africano venisse infine accusato anche di tradimento in favore di
Antioco, che gli aveva restituito il figlio prigioniero senza pretendere
riscatto. Nel 184 a C.,
S. si ritirò nella propria villa a
Literno, abbandonando la città di Roma, indignato ma ormai cosciente
della vittoria delle forze a lui opposte. Infatti, tanto i popolari quanto gli
ottimati gli erano ormai avversi: la sua politica diretta a un patronato
egemonico di Roma sull'Oriente ellenico, senza annessioni territoriali dirette,
gli aveva alienato le simpatie dei popolari che, comprendendo i ceti mercantili
e con maggiori interessi economici, aspiravano invece al controllo assoluto dei
mercati. Il suo evidente filoellenismo, d'altra parte, coniugato alla grande
autorità personale che in taluni momenti aveva fatto temere
un'involuzione in senso monarchico dello Stato romano, gli avevano inimicato
l'aristocrazia e i cultori della tradizione romana e repubblicana (236 a.C. -
Literno 183 a.C.).